Il trekking, o l’hiking, possono essere classificati tra le discipline outdoor pericolose? Se osserviamo bene i dati relativi agli interventi effettuati sul territorio nazionale dal Soccorso Alpino e Speleologico ci verrebbe da rispondere a questa domanda in modo affermativo.

Dal report annuale del CNSAS, il Corpo Nazionale di Soccorso Alpino Speleologico, si può evincere che su circa 12.000 interventi circa il 43% sono stati effettuati in aiuto a persone che praticavano l’escursionismo. Una cifra importante che evidenzia una criticità che negli ultimi anni è in crescita esponenziale. E, se andiamo ad approfondire il tema, notiamo che le cause sono principalmente dovute a tre fattori:

Caduta o scivolata 45,9%

Incapacità durante l’attività svolta 25,5%

Malore 12,1%

 

Con valori meno rilevanti, possiamo vedere che anche il maltempo, con il 4,3% degli interventi, è un fattore che non bisogna assolutamente sottovalutare.

Un altro dettaglio importante è il numero dei feriti leggeri che, dico fortunatamente, è la stragrande maggioranza di quelli soccorsi e, addirittura, il numero degli illesi (4.151), che sono identificate come persone in difficoltà, sorprese dalle condizioni morfologiche, dallo stato del terreno (ghiaccio, neve) o per incapacità o inadeguatezza dell’attrezzatura come le calzature o l’abbigliamento.

L’identikit della persona soccorsa è quasi sempre un uomo di circa 50-60 anni che si è leggermente ferito dopo essere scivolato in escursione durante il mese di agosto.

Da questa analisi, davvero utile per cercare anche le eventuali soluzioni per fronteggiare il numero sempre più alto degli incidenti, possiamo innanzitutto capire che il turismo attivo ha ormai fatto segnare numeri sempre più importanti ed è in crescita costante, ma allo stesso tempo che il livello tecnico dei frequentatori della montagna, sia in termini di preparazione fisica che di equipaggiamento, non ha seguito di conseguenza lo stesso trend.

Ed è sempre più frequente, soprattutto sui social, l’intolleranza di tanti riguardo al costo sociale che consegue dagli incidenti, soprattutto quando si parla di soccorso aereo, anche se credo fermamente che se dovessimo affrontare il tema, allargando la finestra degli interventi effettuati annualmente dal 118, in generale direi che si hanno più costi sociali a causa di patologie derivanti da sedentarietà che da incidenti in montagna. Ed è anche vero che il turismo attivo in Italia è un motore trainante della nostra economia.

C’è però da trovare una soluzione a questa crescente criticità e lo possiamo fare solo se riusciamo a capire come si arriva a una chiamata al Soccorso Alpino.

Porterò alla vostra attenzione un caso realmente accaduto senza rivelare nomi ma solo la località dove si è consumata purtroppo una tragedia:

Sono circa le undici del mattino di un giorno di settembre. Siamo in Sardegna e le condizioni climatiche sono estremamente proibitive a causa delle alte temperature registrate. Alan, un escursionista di circa quarant’anni si incammina sul ripido pendio che, partendo dalla strada che conduce a Porto Flavia, conduce in breve alla cima di Monte Nai. Non è sardo e non è nemmeno abituato a questo clima. La colonnina di mercurio sfiora la tacca dei quaranta gradi e, dove la vegetazione è particolarmente assente, camminare risulta davvero faticoso. Non ci si accorge subito, ma la disidratazione e la temperatura corporea in questo contesto subiscono un innalzamento a livelli pericolosi. Il dislivello da superare nella prima salita non è tanto, circa 300 metri, ma camminare su questo terreno impervio è complesso. L’obiettivo di Alan è raggiungere la sua meta a circa 14 Km di distanza dal punto di partenza, anche se probabilmente confida sul fatto che a metà strada c’è la possibilità di approvvigionarsi di acqua e cibo. Già dalle prime battute si accorge che il sentiero non è così facile come gli era stato presentato e inizia a soffrire di stati ansiosi. Rimane però in contatto con i suoi amici rimasti in albergo, iniziando una conversazione via sms. Il momento critico avviene quando finisce in una serie di vicoli ciechi, sentieri non battuti e privi di segnalazione. Il sole, il caldo estremo e la poca acqua che ha con sé iniziano a creare una situazione di pericolo senza ritorno. “Credo di essermi perso” – è uno dei primi messaggi inviati agli amici, che lo invitano a inviare la posizione tramite Google Maps. Non è chiaro se Alan ha un’app per tracciare il suo cammino o se utilizza solo Maps per avere la sua posizione sulla mappa. La morfologia del terreno non garantisce una sufficiente connessione dati ed è difficile talvolta controllare la propria posizione e, cosa ancora più importante, inviare o ricevere messaggi. Ma se Alan stesse utilizzando una app registrando la propria traccia, sarebbe molto più facile per lui ritrovare la strada del ritorno. Si trova (anche se non lo sa) a circa quattro chilometri dal punto in cui era partito e a circa un’ora da un possibile approvvigionamento d’acqua, ma soprattutto sarebbe libero da quei problemi che gli sta creando quell’infido sentiero. A un certo punto sembra quasi rassegnato e invia un messaggio chiedendo di essere rintracciato e portato via da là. Gli amici non tentennano dopo la sua richiesta di soccorso e, per prima cosa, chiedono un consiglio al proprietario dell’albergo che in modo più appropriato chiama il numero di emergenza nazionale. Le ricerche risultano da subito difficili via terra ed è quindi necessario l’intervento dall’alto dei mezzi messi a disposizione dall’Aeronautica Militare e dai Vigili del Fuoco che supportano le squadre a terra del Soccorso Alpino e dei volontari che sono accorsi alla ricerca di Alan. Ma non si riesce a trovare l’uomo e le chiamate al suo telefono non hanno risposta già dal pomeriggio. Le ricerche vanno avanti per circa tre giorni, nei quali sono stati utilizzati strumenti all’avanguardia come camere termiche in dotazione agli aeromobili e ai droni. Alla fine, sarà un cane molecolare che ritroverà il corpo, ormai senza vita, dello sfortunato.

Qualche giorno più tardi, mi sono domandato come possa trovare la morte un ragazzo di nemmeno quarant’anni a un’ora di cammino dalla civiltà, e ho cercato di elaborare alcuni scenari possibili per avere una risposta.


Alan era inesperto?

 

Questo non è dato sapersi al 100%, ma dalle foto apparse sui giornali nei giorni seguenti alla tragedia, egli sembra in buona forma, con un abbigliamento adeguato o comunque nella media dei frequentatori di quei sentieri. Posso dire di aver incontrato persone che sembravano più sprovvedute di questo ragazzo. Alcuni con indosso sandali, altri sprovvisti di borracce per l’acqua, o qualcuno incamminatosi in un tardo pomeriggio invernale senza avere con sé la più elementare nozione di orientamento, o privi di app o strumenti per geolocalizzarsi. Mi è anche capitato di imbattermi in alcuni di questi soggetti ed essere riuscito a convincerli a tornare indietro sui loro passi, dopo aver constatato la totale inadeguatezza a percorrere tracce classificate EE (escursionisti esperti). Qualcuno di loro mi ha anche ringraziato per averlo messo al corrente del pericolo a cui stava andando incontro, altri invece mi hanno perfino mandato a quel paese per aver dubitato della loro resistenza fisica e della preparazione tecnica. Ecco perché preferisco quelli che io definisco “sprovveduti inconsapevoli”, persone che hanno almeno ancora la capacità e l’umiltà di ascoltare e fare tesoro dei consigli di chi è più esperto, o semplicemente di chi conosce meglio il territorio.


Ma quali sono i possibili errori che ha commesso Alan?

 

Ci sono sicuramente errori di valutazione, decisionali e alcune concause che si sono rivelati la tempesta perfetta di quel maledetto giorno.


Partiamo dagli errori di valutazione:


  1. Anche non conoscendo lo stato di salute e forma fisica del ragazzo, il primo passo falso è stato sottovalutare il clima, soprattutto quando non sei abituato al caldo torrido dell’estate sarda. Durante una di quelle giornate di ricerche, il tasso di umidità era talmente alto che le temperature percepite erano insopportabili anche per un locale.
  2. Ha sottovalutato la difficoltà e la lunghezza del percorso. Può essere, e a mio modesto parere la tappa non è impegnativa solamente per i dislivelli totali (+887 e -889), ma anche per il tipo di terreno da affrontare. Sono diversi anni che sottolineo l’importanza di non sottovalutare un settore come questo, tra l’altro molto frequentato, e di sensibilizzare coloro i quali decidano di cimentarsi su questi percorsi, anche per mezzo di articoli, video, social media. Constatando il numero delle crescenti presenze degli ultimi anni, credo sia importante un’attenzione maggiore su questi dettagli che possono fare la differenza per evitare eventi, anche non così tragici, come quello di cui trattiamo.
  3. Anche il non possedere uno strumento di geolocalizzazione adatto è un errore comune a tanti escursionisti, che viene causato sempre da una sottovalutazione del percorso che si crede già dalla partenza troppo facile. Non mi riferisco a strumenti costosi o gps dedicati, ma a un semplice smartphone con app di tracciamento (vedi Oruxmaps) che, se opportunamente utilizzati, garantiscono la costante rappresentazione della propria posizione georeferenziata e graficamente visualizzata su una mappa digitale. Non solo, anche nell’eventualità ci si renda conto di non poter continuare nella direzione che ci si era prefissati, la registrazione della traccia può rivelarsi il filo di Arianna che ci riporta a casa. Alcuni escursionisti, inoltre, sono abituati a contesti diversi da quelli incontrati sui nostri sentieri sardi, o almeno di certe zone dell’isola. Un conto è camminare sui sentieri delle Dolomiti dove la segnaletica è davvero capillare e il terreno è ottimamente battuto e un altro è invece percorrere alcuni tratti in mezzo a una fitta vegetazione e dove difficilmente si legge bene il percorso. Questo vale soprattutto per i luoghi dove la quasi assente manutenzione ha causato un restringimento del fondo calpestabile e dove gli animali al pascolo subentrano anche loro come moltiplicatori di tracce che, per l’escursionista meno esperto, possono diventare fuorvianti.

Apro una parentesi dedicata alla segnaletica che è un tema di cui abbiamo discusso in maniera costruttiva con alcuni amici negli ultimi tempi. Quando un un’economia si basa sul turismo, soprattutto di tipo outdoor, i percorsi escursionistici sono sempre al primo posto nell’attrarre appassionati. Persone di ogni sesso e età viaggiano con il principale obiettivo di esplorare nuovi posti e camminare su sentieri che, nell’era dei social media, di strava di wikiloc, vengono pubblicizzati gratuitamente e senza costi aggiuntivi per le comunità locali, per mezzo appunto di questo semplice passaparola che è internet. E, quando un sentiero o un lungo cammino diventa virale a livello globale, non c’è da sorprendersi se il numero di presenze sia in costante aumento. A questo punto c’è da chiedersi se questi percorsi, ripeto pubblicizzati a livello globale anche su testate giornalistiche internazionali, siano fruibili e sicuri per tutti i livelli di escursionista. 

Quindi, per prima cosa, dovremmo dedicare un po’ di tempo a percorrerli, per giudicare e classificare la loro difficoltà, una ricognizione basata però su diversi parametri che non si dovrebbero mai escludere a priori:


  1. Dislivello: è un parametro importante che l’escursionista dovrebbe imparare a conoscere prima di intraprendere il cammino, comparandolo alla distanza da percorrere e al tempo stimato di arrivo al traguardo. Questi numeri, per un escursionista mediamente esperto, sono la chiave di lettura che può indicare se ciò che andremo a percorrere sarà facile o si rivelerà una semplice passeggiata. E deve risultare chiaro che ciò che può essere proibitivo per un individuo, può essere invece un semplice giorno di svago per altri. Per fare qualche esempio di ciò che sto dicendo, posso raccontare due tappe del mitico GR 20 di Corsica che ho percorso nel 2022. La prima che mi viene in mente è una tappa mediamente lunga, di circa 12 chilometri, e con un dislivello positivo di 1500 metri, che ho portato a termine in meno di 6 ore. Le difficoltà, ad eccezione di quel dislivello importante, erano praticamente inesistenti. Il terreno era ben battuto, non c’erano problemi di orientamento e il rifugio lo abbiamo raggiunto senza fatica. La seconda tappa, invece, aveva uno sviluppo di circa 7 chilometri con 700 metri di dislivello positivo. Il tempo di percorrenza era stato di almeno 7 ore e, se facciamo un piccolo calcolo, la media non superava il chilometro all’ora. Cosa si evince da tutto ciò? Che, se andiamo a valutare un percorso solo per il dislivello senza valutare altri parametri, compresa la nostra forma fisica, potremmo renderci conto troppo tardi che quel percorso non era adatto a noi.
  2. Clima e tipo di terreno: Il tipo di terreno è un dettaglio da considerare importante dopo aver letto i valori di distanza, del dislivello positivo e negativo e del tempo di percorrenza stimato. Ci darà conferma delle difficoltà che dovremo affrontare considerando anche il fattore clima e ci dirà se potremo affrontare il percorso in totale sicurezza. Ho avuto diverse brutte esperienze in passato su sentieri che conoscevo bene, in Supramonte soprattutto. Il terreno eroso, con rocce calcaree esposte può non essere un problema durante le belle giornate, ma trasformarsi in un inferno quando la pioggia rende il nostro cammino impossibile. Ricorderò la discesa da Badde Doroné sotto una pioggia battente e ogni elemento del gruppo di amici che non fosse scivolato almeno una volta rischiando di farsi davvero male. Alcune tappe del GR 20, dove regna il granito e le difficoltà da affrontare sono importanti, diventano impraticabili, se non addirittura letali, quando piove.
  3. Ostelli, rifugi, bivacchi: è una nota dolente qui in Sardegna che, solo negli ultimi tempi, grazie all’Agenzia Regionale Forestas si è dotata di una normativa che finalmente riconosce l’utilizzo e regola la gestione dei rifugi a uso escursionistico. Sapere che a una certa distanza da noi esiste un luogo sicuro dove ripararci, mangiare e bere, è per un escursionista un fattore fondamentale per la sicurezza e, dal punto di vista psicologico, un elemento determinante per camminare con un animo sereno. Non dimentichiamoci che il cammino deve essere soprattutto uno svago. Certo, è che dobbiamo essere onesti nel dire che siamo ancora lontani da realtà come quelle delle Dolomiti dove i rifugi sono da tanto tempo una istituzione e i rifugisti una figura importante che non deve occuparsi solo di rifocillare gli ospiti ma trasformarsi quasi in una sorta di angelo custode che fornisce indicazioni sul percorso e assistenza di ogni genere. Queste persone sono fondamentali anche nella prevenzione degli incidenti in montagna fornendo ai camminatori tutti i suggerimenti, e consigliando di non partire in caso di condizioni meteo avverse.
  4. Segnaletica: come la conosciamo attualmente, è un’invenzione creata per l’escursionismo moderno, fenomeno che vede come attori persone che provengono da background molto differenti fra loro. Tempo fa si utilizzavano metodi diversi dalla segnaletica stile CAI. Pensiamo agli omini di pietra o pietre incastrate tra i rami di un albero per mostrare la direzione all’interno di un bosco, metodi ancora molto diffusi nella comunità escursionistica, soprattutto dove la segnaletica ufficiale è assente. Sono tutti questi sistemi abbastanza diffusi e condivisi da molte civiltà nel mondo. Quello che si prefigge oggi il C.A.I. con la propria segnaletica (diventata ormai ufficiale per la sentieristica italiana) è una lettura immediata e comprensibile da tutti di come il percorso si sviluppi nella direzione verso la quale siamo diretti, e da dove stiamo provenendo. È quindi una segnaletica bidirezionale che consente al lettore di capire esattamente a che punto è in quel settore specifico di sentiero anche se, essendo un sistema quasi sempre “a tempo”, può non essere il metodo più preciso per capire l’esatta distanza di un certo traguardo rispetto alla nostra posizione. Con questo non voglio dire che i tempi indicati sui cartelli siano errati, ma che dobbiamo interpretarli e intenderli come valori che possono deviare dalla media a causa di eventuali e differenti fattori quali la forma psicofisica, il clima, etc. Chi mi conosce sa che sono contrario alla ormai troppo diffusa proliferazione di segnali sul percorso, perché sono convinto che, nonostante essi siano un ausilio fondamentale per tanti, allo stesso tempo la ridondanza di informazioni, frecce, segnaposto vari, deconcentrano il camminatore privandolo di quel pizzico d’ansia (e autonomia nel cammino) che lo renderebbe più attento ai dettagli del terreno. Fare trekking non è come andare al luna park o al supermercato dove si indirizzano i clienti con ogni sorta di informazioni. Camminare su sentieri necessita di consapevolezza dei propri limiti che non deve essere indebolita dalla convinzione che più cartelli ci sono sul percorso e più sicurezza è garantita a tutti. Apro un’altra parentesi dedicata ai sistemi di segnaletica unidirezionale che ormai sono comuni a diversi cammini presenti sul territorio nazionale. Alcuni di loro mi piacciono molto dal punto di vista grafico, non essendo nemmeno invasivi o troppo visibili come quello ufficiale del C.A.I, ma così come sono posizionati sui sentieri rivelano alcuni difetti. Essendo le tappe di questi cammini progettate per essere percorse in una sola direzione, la segnaletica comporta alcune criticità che non vanno assolutamente trascurate nel caso che un escursionista cammini su quel percorso. Su carrarecce o su sentieri puliti e ben battuti questa segnaletica non comporta nessuna difficoltà nella progressione, cosa che invece non risulta scontata quando ci muoviamo su sentieri di montagna dove la vegetazione molto fitta diventa un ostacolo alla navigazione. Cosa che si accentua nel momento in cui, per diverse ragioni, decideremo di fare dietrofront per tornare magari al nostro punto di partenza, momento in cui non riusciremo più a rilevare facilmente i segnaposto posizionati appunto nel senso contrario alla nostra marcia. È quindi una segnaletica adatta a percorsi privi di ostacoli, per sentieri ben manutenuti, ma non per percorsi montani il cui sviluppo risulta difficile da percepire da un escursionista di medio livello. 

Tornando a parlare di Alan, quali sono stati gli eventuali errori decisionali?


Parto sempre dal presupposto che è difficile giudicare eventuali decisioni errate che possono aver portato a un epilogo così drammatico. Non bisogna mai dimenticare che ci sono parenti e amici che piangono una perdita, e le parole e i giudizi devono essere sempre calibrati e ponderati per non offendere la memoria di una persona morta prematuramente. Soprattutto mi ritengo lontano anni luce da quei leoni da tastiera che non vedono l’ora di sputare sentenze sugli escursionisti che si perdono o che hanno incidenti in montagna. Come dice un mio amico velista, non esiste un marinaio che almeno una volta non abbia incontrato la malasorte in mare, con la sola eccezione di quelli che rimangono in porto.  Credo piuttosto che le scelte errate siano la conseguenza di diversi fattori che si sommano anche alle errate valutazioni. Analizziamo lo scenario nel quale si è ritrovato lo sfortunato Alan, e pensiamo all’entusiasmo nel provare un’avventura totalmente differente da quelle a cui era abituato nei luoghi di provenienza. La voglia di godere di quei panorami, osservati prima d’ora solo sulle foto che pubblicizzavano il luogo, è talmente forte che lo spinge ad avventurarsi in solitaria su quei ripidi pendii. E qui il primo errore è stato quello di partire troppo tardi, con il sole già a picco e con una temperatura troppo elevata. Partire all’alba è quasi d’obbligo nei trekking estivi in Sardegna. Alan era già in ritardo sulla tabella di marcia e, in quei giorni, la temperatura dell’aria alle sette del mattino si aggirava intorno ai 25 gradi Celsius, contro i 37-38 di mezzogiorno. Una volta capito che era in ritardo avrebbe dovuto rinunciare e rimandare la tappa all’indomani. Qualcuno ha anche detto che l’errore è stato quello di partire in solitaria, ma su questo mi trovano in parziale disaccordo. Il mal comune e mezzo gaudio non funziona in montagna e, se uno ha abbastanza esperienza, da solo può gestire perfino meglio certe emergenze.

Chiaro è che, se uno decide di partire in montagna da solo, deve anche avere con sé tutti gli ausili che gli consentano di sopravvivere per almeno un giorno e deve avere la possibilità di geolocalizzarsi e comunicare con gli eventuali soccorritori. E quando parlo di ausili fondamentali alla sopravvivenza, mi riferisco all’acqua che deve essere sufficiente per una giornata intera come in questo caso. A una persona in buono stato di salute e già ben idratata alla partenza, erano necessari per poter raggiungere il traguardo intermedio almeno due litri d’acqua. Anche se non è stato ufficialmente chiarito Alan portava con sé una borraccia da un litro, totalmente insufficiente per un percorso come quello perfino nella stagione invernale. Inoltre esiste una regola fondamentale che non si deve mai dimenticare quando ci si ritrova in difficoltà o quando abbiamo perso l’orientamento. Una volta comunicata la nostra posizione, non dobbiamo più spostarci e rimanere in attesa, cercando naturalmente un riparo dalle intemperie o, in questo specifico caso, dal sole cocente. Utilizzare poi abbigliamento o equipaggiamento ad alta visibilità aiuterà i soccorritori a rilevare meglio la nostra presenza sul terreno. Ottimo sarebbe dotarsi di dispositivi di comunicazione satellitare che permettono di rimanere sempre in contatto anche in assenza di rete di telefonia mobile. A tutt’oggi non tutti si possono permettere una dotazione costosa, ma sicuramente sarebbe da preferire a un abbigliamento alla moda, di gran lunga meno utile. Strumenti come il Garmin Inreach (nella versione MINI2 per esempio) è come un’assicurazione sulla vita che magari non utilizzeremo mai ma che, al momento opportuno, ci potrebbe togliere da guai molto seri.

Dopo questa lunga analisi, dove ho provato a rispondere alla domanda iniziale se il trekking possa essere classificato come una disciplina pericolosa, posso tranquillamente affermare che per causare un epilogo così drammatico come quello di Alan, ci devono essere diversi elementi che simultaneamente, o in successione, creano quella che ho già descritto come la tempesta perfetta e, dove anche quello che trascende dal libero arbitrio (chiamiamola sfortuna) gioca un ruolo fondamentale nell’accanimento degli eventi che ci possono condurre alla morte. Quella di Alan è stata una di quelle giornate dove, sia le decisioni che la cattiva sorte, lo hanno portato velocemente alla fine peggiore che nessuno di noi si sarebbe aspettato.