Avevo circa undici anni, mio padre aveva un piccolo terreno fuori città, mi sentivo fortunato.  Passavamo i fine settimana in quella casa di campagna che aveva tutto il necessario. Il camino, che mio padre accendeva la mattina presto regalava la vista del chiarore del fuoco dalla mia piccola cameretta. Il rumore della moka, che veniva seguito dal profumo del caffè, era la sveglia che preannunciava un altro giorno da spendere in mezzo alla natura. Erano gli anni della scoperta di un territorio affascinante, con le sue miniere abbandonate che facevano da contraltare a quelle ancora in attività. Il suono della sirena segnalava il cambio turno degli operai e si sentiva a chilometri di distanza, scandendo il tempo anche di noi bambini. Talvolta, quel segnale, fuori orario e senza interruzione, presagiva eventi gravi accaduti in galleria. Un brivido scorreva lungo la schiena di tutti noi che attendevamo silenziosi l’arrivo di notizie come messaggi portati dal vento, con voci che si susseguivano fino all’esito finale, il più delle volte tragico. Questa, però, era la nostra vita e, ad eccezione di questi fatti, scorreva con la consapevolezza di far parte di una comunità che aveva la miniera al centro delle nostre esistenze. Questo moltiplicava in noi la voglia di scoprire avventurosamente le origini della nostra storia, portandoci ad esplorare, esclusivamente a piedi o con modeste e piccole bici, le aree minerarie dismesse. Vecchie miniere che avevano ancora tracce del lavoro umano ben scolpito nelle rocce, sulle strade. Non ricordo nemmeno quante volte mi sono incamminato lungo i ripidi pendii delle colline di San Giorgio. Lo facevo da solo, senza paura, cercando di memorizzare, per quanto mi era possibile, ogni più piccolo riferimento per non perdermi e tornare a casa in tempo per la cena. Solo ora, dopo mezzo secolo, mi rendo conto di quanto quelle piccole avventure abbiano acuito i miei sensi. Quello dell’orientamento soprattutto, ma anche quello di una visione estetica del cammino che ancora oggi mi fa godere appieno dei miei trekking. Quelle passeggiate non erano ben viste dai miei genitori e comunque dagli adulti in genere. Quei luoghi erano pericolosi per un bambino e in fondo loro non riuscivano a capire il motivo di quelle scarpinate che duravano ore. Perché affaticarsi per andare alla ricerca del nulla? Questo per loro erano, in effetti, quei luoghi desolati, dove non c’era più nulla di interessante da vedere, e questo lo dimostrava il fatto che anche le società minerarie non erano più là. Ecco, credo che per i nostri vecchi il mondo fosse solo quello, la miniera. Dove c’era la miniera c’era vita, il lavoro, il divertimento, gli amici. Soprattutto il camminare, un’attività esclusivamente funzionale e dedicata al recarsi sul posto di lavoro, mai un divertimento fine a sé stesso. A me questo non importava e continuavo i miei percorsi esplorativi che, d’altronde, non si sono mai fermati e hanno continuato a spingermi oltre nella scoperta, fino ad acquistare anche più valore nel momento in cui incontrai nuovi amici con gli stessi miei interessi.

In quel mattino di un gennaio piovoso in cui mi concedevo la solita pausa per ammirare la costa di Nebida dal belvedere, riflettevo sull’opera rappresentata da quella sistematica rete di strade, ferrovie e mulattiere che fondamentalmente erano servite alle miniere per il trasporto del minerale o degli operai impiegati nei diversi cantieri della zona. Un risultato ottenuto soprattutto per mezzo di un lavoro fatto nella maggior parte delle volte esclusivamente a mano.

Sentieri e territorio, in effetti, sono indissolubilmente legati tra loro, come dice Torbjon Ekelund, ogni ambiente ha quindi vie di comunicazione le cui originarie caratteristiche derivano dalle attività economiche e dalla cultura delle comunità di un luogo.

L’Iglesiente dunque, dominato per secoli da un’economia basata sull’estrazione dei metalli dal sottosuolo, ha visto generazioni di uomini costruire strade e sentieri, creati appositamente per recarsi al lavoro o per il trasporto delle merci. Una rete capillare di mulattiere, carrarecce e ferrovie ad esclusivo impiego industriale. Le miniere, gli impianti di lavorazione che, nella maggior parte dei casi risultavano essere edificati molto distanti dai centri abitati, obbligavano i minatori a percorrere mulattiere impervie anche per ore. Mentre l’opera capillare di costruzione di carrarecce e ferrovie era voluta essenzialmente dalle società minerarie, gli stessi minatori contribuivano anche involontariamente al sorgere di nuove vie di comunicazione. In fondo, trovare il percorso più breve per andare al lavoro significava risparmiare tempo prezioso di una giornata che prevedeva più di dieci ore nel buio sottosuolo. Anche nei boschi delle montagne che circondano il bacino metallifero sono presenti ancora chilometri di sentiero. Nella maggior parte dei casi sono tracce lasciate dai boscaioli che fornivano il legname per la costruzione di gallerie, o il carbone per le macchine a vapore utilizzate spesso per il funzionamento degli argani nei pozzi minerari. Insomma, tutta questa rete era funzionale alle attività produttive e il camminare di quel periodo storico non aveva il significato ludico, estetico che noi potremmo attribuirgli oggi.

Finita l’epopea industriale, con l’arretramento antropico da certe aree, la natura si era ripresa ciò che gli era stato tolto, nascondendo buona parte di quella rete sentieristica.

Mi domandavo quanti chilometri avrei potuto ancora percorrere di quei sentieri segnati sulle mappe ormai obsolete e se magari fosse presente ancora una loro piccola traccia. Mentre continuavo nelle mie esplorazioni in tutto il territorio sardo, in quegli anni, una piccola rete di volontari andava a scovare angoli sconosciuti dell’entroterra di Nebida e Masua, pulendo e facendo manutenzione quasi costante di queste tracce dell’epopea industriale.  Era anche il periodo in cui gli escursionisti iniziavano a scoprire il mitico sentiero Miniere nel Blu, una passerella a picco sul mare che collega la spiaggia di Masua a quella di Cala Domestica. La prima volta che mi incamminai su quei ripidi tornanti che portano al crinale di Monte Nai, rimasi incantato della bellezza di quel luogo che iniziava a vedere ricrescere una vegetazione indebolita, non solo dalle attività umane, ma anche dagli incendi. Quelle visibili cicatrici erano ancora là, rappresentate da muretti a secco, ruderi di piccole abitazioni, forni di calcinazione, gallerie, mulattiere e sentieri che pian piano, complici la loro obsolescenza e il totale abbandono, stavano scomparendo sopraffatti dalla macchia mediterranea, mai doma, mai sconfitta dall’uomo.

Non avrei mai potuto dire di essermi addentrato in un ambiente selvaggio, anzi era stato sempre tutto il contrario. Quei luoghi avevano visto unicamente una incisiva azione di uomini e donne che per centinaia d’anni hanno cercato di estrarre il massimo profitto dal suo ricco sottosuolo. Solo da poco tempo si era visto un rallentamento della presenza dell’uomo in certe zone, e questo era soprattutto dovuto alla chiusura di diversi cantieri d’estrazione. Eravamo sul finire degli anni ottanta e una profonda crisi stava attanagliando tutto il settore minerario del Sulcis Iglesiente. Ogniqualvolta si presentava la prospettiva di una chiusura totale delle attività estrattive, la lotta sindacale, insieme a forti spinte da parte di un fronte politico unito, riusciva ad allontanare di anno in anno lo spettro di una catastrofica crisi sociale che si sarebbe presentata perdendo quei posti di lavoro. Allo stesso tempo però, questi successi parziali proiettavano sulla comunità il miraggio di una infinita procrastinazione della fine dell’epopea industriale. Ma si era ormai agli sgoccioli e, nel 1992, arrivò la decisione di quella tanto temuta chiusura definitiva delle più grandi e produttive miniere dell’Iglesiente. Si ebbe subito la sensazione che nulla sarebbe stato più come prima, e ora si andavano ipotizzando scenari diversi, da quelli più apocalittici di chi pensava che questo territorio non ce l’avrebbe fatta senza l’industria, a quelli più ottimistici proposti da chi credeva in una riconversione economica che avrebbe visto di lì a poco quelle buie gallerie ripopolate di turisti con caschetto e lampada a carburo.

Tra questi ultimi c’erano Flaviano Bessone e Bruno Fonnesu. Ne sentivo parlare come due visionari che, nel momento in cui tutti difendevano la politica di industrializzazione del territorio, facevano parlare di sé per aver introdotto in questa zona le parole free climbing e trekking. Il primo addirittura, si era trasferito da poco tempo in Sardegna per dare vita al Bed and Breakfast “Cà da Pria” molto conosciuto tra gli appassionati di arrampicata. Erano gli anni in cui anche un certo Manolo, alias Maurizio Zanolla, il free-climber per eccellenza, frequentava assiduamente le falesie della costa dell’Iglesiente, tanto da poterlo definire uno del posto.

Ero affascinato da quel mondo di avventurieri, e quella mattina piovosa ebbi l’occasione di incontrare Giuseppe, il fratello di Bruno Fonnesu. Mi espose un loro, seppur ancora vago, progetto di valorizzazione del territorio. Dal suo racconto traspariva l’orgoglio di far parte di una comunità che aveva vissuto la miniera come una famiglia. I valori identitari stavano spingendoli tra l’altro a riportare alla luce buona parte dei sentieri storici della zona di Nebida. Naturalmente non era un lavoro facile e soprattutto non c’erano fondi, né contributi da parte di terzi per poter pensare ad una riuscita in quest’impresa. Erano spinti però da una passione senza eguali, mandando avanti un lavoro sistematico di pulizia e manutenzione che in futuro avrebbe visto nascere la rete di sentieri dell’area del sud ovest che abbraccia diversi territori comunali, da Portoscuso a Buggerru.

È il 3 maggio del 2005 quando viene fondata l’associazione Verde Azzurro Pan di Zucchero. Ha un nome lunghissimo, talvolta difficile da ricordare, ma per gli ideatori deve diventare il simbolo di un territorio che vuole vedere partire la sua rinascita dall’icona del faraglione più alto d’Italia e dal verde della sua macchia mediterranea che si affaccia sull’azzurro del suo mare. Non a caso l’attività di questi volontari è sempre rimasta profondamente trainata da questi valori, suggerendo agli escursionisti che percorrono i sentieri sulla costa di tenere alta l’attenzione su ciò che osserveranno sulla terraferma, ma anche sul mare per ciò che ha rappresentato e rappresenta oggi per l’Iglesiente. Quando si parla del sud ovest dell’isola, infatti, non si pensa subito all’importanza che ha avuto il mare per il suo sviluppo economico e culturale. Nonostante che la maggior parte delle attività umane fossero svolte anche a decine di chilometri dalla costa, quell’azzurro è sempre stato ciò che ne ha determinato la loro fortuna o sventura.

Si pensi a quanto abbia inciso per i trasporti, per lo sviluppo dell’industria, l’essere isolati dal resto della penisola. Un ostacolo importante che solo la tecnologia e, soprattutto le idee innovative nate esclusivamente in questo determinato contesto economico e sociale, hanno pian piano reso meno impattante. Non solo, talvolta essere vicini alla costa ha significato avere alcuni vantaggi, come la possibilità di avere accesso con più facilità alla risorsa acqua o addirittura quella di disfarsi di milioni di litri d’acqua di origine meteorica, come nel caso rappresentato dalla galleria Umberto I, opera che oggi viene ricordata per aver dato una svolta al rilancio delle attività di estrazione della grande miniera di Monteponi.

I colori ricordati dal logo del sodalizio nebidese sono poi i simboli che identificano la sua continua azione di volontariato nella promozione della cultura di uno sviluppo sostenibile e difesa dell’ambiente, soprattutto in un’area che mostra ancora le ferite inferte dall’industria nei secoli della sua storia. In quasi vent’anni di eventi, mostre fotografiche, trekking guidati, e non per ultima appunto la manutenzione dei sentieri, VAPDZ ha fatto conoscere le bellezze di una costa che non erano ancora contemplate sui depliant delle agenzie di viaggio. In quel passato non molto lontano, questo non era certo un luogo dove andare a passare le vacanze e, con le attività di estrazione ancora in essere, la maggior parte dei luoghi che oggi i visitatori possono ammirare erano totalmente off limits. Luoghi pericolosi che continuano ad esserlo per la loro peculiarità di aree minerarie dismesse in alcuni casi totalmente prive di segnalazioni e perimetri di sicurezza. Questo obbliga tutti a seguire attentamente i segnali che si trovano lungo i percorsi e a non valicare mai le recinzioni che delimitano le aree a rischio e, nel caso di alcuni siti, di non avventurarsi nelle gallerie abbandonate. È anche questo, dopotutto, il fascino di un territorio che non ha eguali nel panorama escursionistico nazionale. Sentirsi talvolta come Indiana Jones può regalare emozioni che non si proverebbero in altri contesti naturalistici e, percorrere quelle impervie mulattiere e quei sentieri che conducono alle vecchie miniere a picco sul mare, ha anche una valenza di riscoperta di un passato che coinvolge emozionalmente il visitatore, fino a fargli decidere di ritornare in quei luoghi per continuare la ricerca di quel tesoro senza fine.

VAPZ oggi continua la sua attività di ricerca di nuovi percorsi di trekking, creandoli con livelli di difficoltà che possono significare una semplice passeggiata o difficili e impervie varianti che necessitano di una buona preparazione sia fisica che tecnica. La maggior parte dei percorsi è comunque adatto ad una vasta platea di escursionisti, da quelli meno esperti a quelli più esigenti che cercano anche passaggi adrenalinici.