“proprio nella misura in cui pretendiamo di stabilire una discriminazione fra le culture e fra i costumi, ci identifichiamo nel modo più completo con quelle che cerchiamo di negare.” (Claude Levi-Strauss)

 



 

In un tempo in cui il nostro Mediterraneo è attraversato da uno scontro di culture, ci stiamo dimenticando che anche la nostra è frutto di forti e continue relazioni con tutte le civiltà con cui abbiamo avuto contatti. Che l’unicità dei nostri costumi e delle nostre usanze non è il risultato dell’isolamento ma bensì delle influenze a cui la nostra isola è stata sottoposta nei secoli. Nonostante il nostro levare gli scudi per difendere il nostro modo di vivere, ciò che siamo lo dobbiamo ad uno scambio continuo di informazioni, di contatti e relazioni umane da cui non possiamo difenderci.

Il solito etnocentrismo, soprattutto in occidente, uno scudo levato a difesa  dei propri usi e costumi, non è altro che la paura di ciò che non si conosce. E nonostante che, dall’uso corrente della lingua siano scomparsi termini come selvaggio o primitivo, tutto ciò che comunque notiamo differente dal nostro mondo, lo attribuiamo a un disordine irrazionale che invece non è nient’altro che una cultura diversa che vale la nostra.

Per questo, mi sono venuti in mente nelle ultime settimane i diversi aneddoti che riguardano i Sardi e coloro i quali hanno avuto contatti con la nostra Isola nei secoli di storia. E lo sappiamo, la Sardegna nel Mediterraneo è uno dei luoghi con una civiltà tanto antica quanto differente dal resto del continente europeo e che non sempre ha avuto la stessa simpatia iniziale di altre: ricordando che la simpatia non è soltanto un atteggiamento morale ma anche scientifico, bisogna pur dire che tanti viaggiatori o personaggi, che hanno avuto modo di parlare dei Sardi, non hanno sempre avuto un buon concetto dei nostri usi e costumi. In tanti, invece, viaggiando quest’isola con approccio scientifico, ne hanno invece apprezzato e riconosciuto le caratteristiche e dedicato la loro vita al suo studio. Altri ancora, solo abbagliati da un El Dorado costituito dalla ricchezza della sua natura e viaggiato in modo frettoloso, l’hanno addirittura vista come un deserto e priva di abitanti.

 

 

La storia di un ingenuo

 

Proprio uno di quest’ultimi è stato il grande Honoré de Balzac, l’uomo dalle grandi passioni, sempre in bilico tra la ricchezza e la bancarotta. Ad un certo punto della sua vita, ebbe l’intuizione di fare fortuna nello sfruttamento delle miniere della Sardegna, con una convinzione consolidatasi dopo che un suo amico gli confidò che si potevano estrarre metalli come l’argento anche dalle scorie di lavorazioni precedenti. Ora, un amico di Borget, grande chimico, possiede un segreto per estrarre oro e argento qualunque sia il modo e la proporzione in cui è mescolato ad altri materiali. E a poco prezzo” scriveva il nostro in una lettera indirizzata a una sua amica, Madame Hanska, una contessa polacca con la quale stringeva una relazione segreta. Egli viaggiò molto per incontrarla in diverse parti d’Europa, ma i soldi erano sempre pochi e la sua arte non era abbastanza per racimolare i quattrini sufficienti. “[…] Sappi che in quel che intraprendo c’è molta più voglia di porre fine alle sofferenze altrui che desiderio di ricchezza personale. Quando non si hanno rendite di fondi si può fare fortuna solo con idee come quella che sto per realizzare”:  è questa la frase, tratta da una lettera indirizzata alla madre, di un uomo sull’orlo del baratro e che intravede uno spiraglio di luce in una terra lontana, a lui sconosciuta. È la Sardegna di inizio ottocento, poverissima dal punto di vista socio-economico ma ricchissima nei suoi giacimenti metalliferi, e che attrae gli avventurieri di mezza Europa convinti che il futuro sia proprio qui. Ma Honoré non ha le scaltrezza di un imprenditore e nemmeno è un tecnico che può capire la portata di un investimento in campo minerario. Dopo aver toccato piede sul suolo sardo si accorge che quell’avventura si sta mettendo male in quanto le concessioni sono state già acquisite da altri. E non solo. Proprio chi all’inizio lo aveva supportato e consigliato nell’impresa, ora lo aveva tradito precedendolo negli affari. Scopre che le difficoltà sono molte di più di ciò che si aspettava e, allontanandosi pian piano il sogno di ricchezza, inizia il suo viaggio esotico lontano dalla civiltà: “[…] Un intero regno desertico, veri selvaggi, nessuna coltivazione, savane di palme selvatiche; ovunque le capre brucano tutti i germogli e impediscono alla vegetazione di crescere oltre la cintura.[…]”   


 

viaggiatori di Sardegna
Su pinnettu – Antica dimora dei pastori nel centro della Sardegna

 


ed ancora scrive: “[…]C’è una regione nella quale gli abitanti fanno un orribile pane riducendo in farina le ghiande della quercia verde e mischiandola con argilla: a due passi dalla bella Italia. Uomini e donne vanno nudi con un brandello di tela, uno straccio bucato per coprire il sesso. Ho visto, nel giorno di Pasqua, accozzaglie di creature a branchi al sole lungo i muri di terra delle loro tane. Nessuna abitazione ha il camino: il fuoco è acceso nel centro della casa che è coperta di fuliggine. Le donne passano il giorno a macinare e impastare il pane e gli uomini badano alle capre, ai greggi e tutto è incolto nel paese più fertile al mondo.”  


viaggiatori di Sardegna
Il fuoco al centro del rifugio – Ciò che forse Balzac ha visto nel suo viaggio

 

Insomma, in questa sua apparizione veloce nell’isola, egli si accorge solo di essere a due passi dal bel paese (ritenendo la Sardegna fuori dalla civiltà) e di un luogo abitato da “veri selvaggi”. Ecco, appunto, che per lui ritorna imperativo tornare al suo paese civile e dimenticare in Sardegna i cocci di un sogno destinato a pochi.

 



 

Il racconto naturalistico ed etno-antropologico del Valery

 

Non sempre però i viaggiatori di Sardegna sono rimasti così delusi dalle loro visite nell’isola, soprattutto perché il loro approccio verso ciò che incontravano era davvero differente da quello dell’ingenuo e incauto Balzac. È il caso di Antoine Claude Pasquin, conosciuto meglio con lo pseudonimo di Valery che, come tanti viaggiatori di quel periodo, riportavano su carta ogni loro impressione durante le visite nei luoghi più esotici del Mediterraneo. Lo stile romantico dei suoi racconti tocca non solo le immagini di una natura incontaminata, che lui fotografa in un mese e mezzo di viaggio, ma anche gli incontri con una popolazione e le diverse sfaccettature di una cultura antichissima che lo affascinano totalmente. La sua visita si svolge in primavera, quando la campagna sarda esplode di un’incredibile bellezza ed è invasa da colori e profumi della macchia mediterranea. Nelle righe del suo diario si ritrovano descrizioni di luoghi paradisiaci, come nel caso della visita presso la valle di Canonica nei pressi di Iglesias, quando viene rapito dalla bellezza delle campagne: “[…] è circondata da vallate belle, fresche e verdeggianti. Il contrasto tra le dimore nere, affumicate, decrepite dell’uomo, e la ridente, l’eterna giovinezza della natura, riconduce con una sensazione fisica a una religiosa ammirazione per il suo autore”. Ed è per lui un regalo in musica quel canto di usignoli e il rumore del ruscello: “i merli, le capinere, e rinomati usignoli di Iglesias erano nel pieno del loro trionfo; quella serata musicale rimane per me uno dei più significativi e più dolci ricordi di concerto”.


 

viaggiatori di Sardegna
La Valle di Canonica a Iglesias

 


 

Il suo libro, ad un primo impatto, suona “facilone” e “sbrigativo”, ma leggendolo con attenzione si nota che l’autore, anche se a tratti travolto dal suo stesso romanticismo, mantiene sempre un atteggiamento scientifico nell’osservazione del viaggio. Non è un ingenuo come il povero Balzac, arriva sull’isola dopo aver viaggiato nella penisola italiana, e nota le tante differenze. Conosce bene la condizione di irrequietezza sociale che regna in quel periodo nell’isola. Si pensi alle rivolte contro l’editto delle “chiudende” e alle condizioni di povertà in cui versa la maggior parte della popolazione isolana. E anche se tende sempre ad evitare questi temi di non facile interpretazione per un lettore medio dell’epoca, a tratti dedica qualche riga anche ai problemi di tipo sociale, come quando parla degli orfanotrofi, o in campo sanitario, quando lamenta le carenze nelle vaccinazioni: “I progressi nella vaccinazione sono rari e lenti in Sardegna”. E senza dubbio non gli è estraneo che l’isola viene relegata nei racconti dei viaggiatori della sua epoca a luogo che è quasi Africa. È intelligente, scaltro perché si fa guidare nelle sue visite da diversi intellettuali che gli aprono le porte di una Sardegna sconosciuta. Dimostra attenzione agli usi e costumi di una popolazione diversa dalle altre, anche se all’inizio ne riconosce una continuità con quella Corsa e sbaglia. Sceglie poi per i suoi racconti i caratteri distintivi di una Sardegna che più ritiene adatti ad entrare nella civiltà europea e ad imporsi come varietà etnica. Sarebbe stato facile per lui, come lo è stato per tanti, arrivare in Sardegna e descrivere una popolazione di “barbuti, dai larghi coltelli, e dalle nere vesti”, lasciando al lettore una visione di una civiltà alquanto primitiva e, come per il Balzac, composta da “veri selvaggi”. Lui non lo fa e anzi elogia la bellezza dei costumi, delle tradizioni, dei monumenti, dimostrando di non adottare mai un semplicistico approccio nell’osservazione. Come quando a Cagliari visita la chiesa di Sant’Efisio e il suo racconto diventa quasi un mea culpa per gli attacchi furiosi che subì l’isola da parte dei suoi connazionali: “[…]incassate nel muro, vicino all’entrata e quasi in terra, delle bombe e delle palle da cannone francesi, lanciate per sei ore con tanto furore e tanta inettitudine contro Cagliari nel 1793”. Per quanto breve, il suo viaggio gli ha consentito di scrivere righe con un taglio scientifico che fa della sua opera, non solo una guida turistica del tempo come qualcuno la voleva etichettare, ma un saggio etnico-antropologico, e per questo moderno pensando alla sua epoca, con le sue precise e dettagliate osservazioni della vita delle popolazioni incontrate in Sardegna. E anche se nel suo racconto non emerge totalmente che quella cultura così diversa sia da considerare dello stesso valore delle altre, quella curiosità che lo spinge alla descrizione delle tradizioni sarde afferma quel concetto in modo certo e indiscutibile.